Lockdown in 3 parti


3 pezzi scritti durante il lockdown. Rimessi qui in ordine cronologico
per riannodare i fili e non dimenticare le cose pensate e successe.


Quando finirà – 19 marzo 2020

Andrà oltre il 3 aprile questa chiusura forzata, le voci prendono corpo e in molti lo immaginavamo.
Aspettiamo quel momento, accumuliamo fantasie, progetti e to do list per il dopo.
Proprio come fosse una guerra. La metafora più usata per parlare di Covid 19 e di come stiamo reagendo.

Ma se questa è una guerra, è la prima guerra che vede unito tutto il genere umano, al di là dei confini, delle lingue, delle religioni e delle idee politiche, contro un solo, chiaro (e invisibile) nemico.

Ma come tutte le guerre gli slanci di altruismo si alternano a rari egoismi, a tentativi di risolvere solo per sé il problema.
Le situazioni difficili non tirano fuori da noi solo il meglio. Questa retorica da post instagram è tanto autoassolvente quanto illusoria.

Tutto le situazioni divisive e potenzialmente mortali tirano fuori non semplicemente il meglio, ma la nostra vera, profonda, natura: un po’ buona, un po’ cattiva. O semplicemente la nostra natura va ben oltre questo giudizio elementare.

E la nostra natura e il racconto da guerra ci spingono a procrastinare il bello dello stare insieme ed aspettare quella improvvisa esplosione di gioia, di comunità, di corpi che ora ci è negata.

Questo è il grande errore che stiamo facendo e che invalida la metafora della guerra.

Non sarà un’esplosione, ma un lento, lentissimo recupero. Con il pensiero che possa tornare il virus, il dolore, la clausura.

Non passeremo in un giorno dalla guerra alla pace. Non scenderemo all’improvviso tutti per le strade a ballare e cantare. Non baceremo sconosciuti e non berremo da bottiglie di bollicine offerte dai passanti.
Sarà un ritorno alla normalità lento e diffidente, con la sua dose di paura.

Non fate grandi progetti di feste, insomma. E non pensate sia una guerra.
E’ una pandemia. La storia che abbiamo studiato a scuola ce lo ricorda e non la confonde con le guerre, di cui pure sono pieni quei libri.

Non è un rimprovero per voi, ma un monito a me stesso. Sono come moltissimi altri lontano dai miei affetti, quelli eterni come la mia famiglia, gli amici di una vita. Mi manca quel calore, mi manca quella fiducia muta e totale. Mi manca lo stare in silenzio con loro e sentirli parlare e ridere e litigare.
Poi c’è l’affetto che era in rovina con una persona lontana migliaia di chilometri che questa clausura rende ancora più amaro e doloroso, senza la chance di potersi almeno perdonare e capire con un solo abbraccio.

Ma questa situazione, come dicevo prima, tira fuori la nostra vera natura, che non è buona e non è cattiva ma è solo fragile, sottile e capace di adattarsi a molte cose, ma non alle privazioni che non portano a una ricompensa. E dovremo evitare il rischio che questa privazione senza ricompensa ci renda più amari e meschini di quel che siamo normalmente.


I pronti alla realtà – 4 aprile 2020

È bello svegliarsi e non farsi illusioni.

Il senso di reclusione di questi giorni, per alcuni, diventa una normalità finalmente condivisa. Niente a che vedere con l’opportunità di crescita, di entrare in contatto con sé. No.

Questa neonata normalità, per quegli alcuni, è piuttosto la possibilità di sentire gli altri al confronto con i limiti. In questo, finalmente, assaporano il senso dell’essere simili.

Limiti che per quegli alcuni sono lo spazio concettuale in cui ci si muove sempre, non solo durante l’emergenze. Niente di tormentato o eroico, uno stato che viene dai sensi ripassati al caldo dei neuroni concentrati a mappare quei limiti.

Di certo, per gli alcuni, si tratta di un vivere ottuso, con un profondo senso di alterità e anche di fastidio per come il resto degli altri celi a se stesso quelle gabbie o le accetti con una serenità simile a quella degli insetti, gioendo dello spazio fra le sbarre come fosse opportunità infinita invece che fessura, spazio residuale.

Questo gabbia individuale e condivisa, il confinamento di ciascuno, per quegli alcuni è finalmente vittoria, quelle vittorie del tutto speciali di quando una sparuta e arrabbiata minoranza mette gli occhiali a tutti gli altri e per la prima volta è il loro lo scenario condivisibile. La fragilità, il dolore e la paura, le ferite del quotidiano e le privazioni prolungate sono di tutti. Semplicemente sono, hanno diritto d’esistere.

Non è una nuova beatitudine, una nuova fratellanza. No.
Gli alcuni sentono solo che esiste un TUTTI, una somma di elementi non più diversi, un insieme coerente.
Durerà poco e lascerà meno tracce di quello che dovrebbe. Ma gli alcuni – per un breve lasso di tempo – non sono stati la minoranza triste, i cupi, ma i pronti alla realtà. Realtà che l’emergenza non modifica ma rivela.


Ripartenza e Dimenticanza – 16 maggio 2020

La clausura fra una manciata di ore sarà finita. La parola d’ordine è ripartire.

Ripartire. La parola detta e scritta. Ma a leggere il senso che si porta nelle attese e nelle aspettative, e in quel prefisso, è dimenticare.
Rimettersi sulla strada di prima, tritando questa esperienza in un mucchio di frammenti personali e confusi. Anche le scelte politiche sembrano avere questa voglia di fondo: risarcire, compensare, non cambiare.

Non c’è nulla di male nel dimenticare, nemmeno nel risarcire.
Ma se diventano il solo modo di superare un trauma, sono la fine della possibilità di scegliersi un futuro – individuale e politico – diverso da quello già tracciato, dalla monotonia degli standard pre-esistenti che tanto efficienti non si sono dimostrati, se concordiamo sul fatto che la crisi ha svelato i punti deboli e dolenti di quella realtà a cui vogliamo tornare.

E come tutti i ritorni è confortante, ma al tempo stesso sarà deludente.
L’età dell’oro, il giardino dell’eden, al secondo giro deludono sempre.
Ripartiamo, ma lontani. Nei bar, nei ristoranti. Lontani comunque da una ripresa economica che sappiamo non ci sarà, ma sarà una lunga via per assorbire il colpo,
per dimenticare questi mesi di non lavoro, di non fatturato. Ritrovandoci con le ingiustizie di prima, solo un po’ più straziati e piegati.

Ma si vuole dimenticare quel tanto che basta per ritrovare i nemici e i colpevoli, per ritrovarsi. Ci piangeremo i morti, ci sperticheremo per le povertà, ma alla fine abbracceremo la realtà che li ha prodotti.

Riapriamo e dimentichiamo. Il tempo per cambiare, il concetto stesso di cambiamento, sarà ridotto al lasso di tempo delle vacanze che faremo in modo diverso, ma saranno sempre vacanze, o ai saldi che forse saranno meno assortiti, ma saranno sempre saldi e il mito della convenienza che diventa realtà per qualche ora.

Intanto santifichiamo il Prof Barbero che ci ha intrattenuto in questa quarantena. Lo abbiamo ascoltato dirci una storia che dimenticheremo nuovamente perché non è il seme di una lezione che sparge ma intrattenimento. Suo malgrado, beninteso.

Torniamo alla vecchia realtà, o meglio alla sua striminzita e stiracchiata copia. Questo vogliamo meritarci per essere usciti da un’emergenza che ci ha piegati: tornare indietro.

Intanto, ogni notte, ancora spero, che da qualche parte, si annidi un’idea di progresso, di reattività che s’innesca quando un mondo vecchio non si tiene più in piedi ed esplode una nuova energia che costruisce un prima e un dopo, un passato e un futuro. E i più scelgono il futuro e iniziano qualcosa che non ha ancora un nome. Perché il mondo di prima non bastava più per le nuove giustizie, per i nuovi desideri. E con quel vecchio mondo ci si chiude, senza riaprirlo più.