La qualità di un muro

Quando il Muro di Berlino venne giù avevo 8 anni. In casa se ne faceva un gran discettare, con quel surplus di agitazione che si addiceva a una famiglia di comunisti. Mentre i miei discutevano, guardavo la tv che mandava immagini da Berlino. La telecamera indugiò su due persone che parlavano da un lato all’altro del muro, aspettando che venisse buttato giù.

Quell’immagine mi portò con la mente a un paio d’anni prima, fra le palazzine del parco operaio in cui sono cresciuto. A dividere il parco dal carcere femminile e le sua mura alte c’era una strada di due corsie. Così, seguendo una stradina in discesa fra le palazzine del parco si arrivava ad una balconata che dava sulla strada e guardava diritto al carcere. 

Un pomeriggio, inseguendo un super santos calciato molto male, arrivai lì. Un uomo altissimo e magro s’aggrappava al ferro della balconata e chiamava la sua donna in prigione. Le urlava che andava tutto bene, che aveva parlato con l’avvocato e che lui l’aspettava sempre. Lei rispondeva che stava bene, s’era fatta le amiche, sarebbe uscita in fretta. 

Quello scambio – anni dopo – l’ho catalogato come il mio primo incontro con il blues. Ma il punto è un altro. I muri, quando ci sono, fanno fare cose eccezionali. Ma sono tutte rivolte a buttarli giù. E ci si riesce sempre.
Questa è la vera qualità di ogni muro: la reazione che risveglia in noi.

Ogni muro alzato è automaticamente l’inizio del suo abbattimento.
Dovremmo assecondare di più questo istinto.