Divisi. La lezione di un ponte crollato

Sono più le cose che ci uniscono di quelle che ci dividono. Come i ponti.
E il crollo di Genova sembra essere la fine di questo detto, che da verità sintetizzata in poche parole sembra divenire una ambizione, un progetto di ricostruzione di uno spirito comunitario che in pochi condividono.

Non parlo del crollo in sé, non ho le competenze tecniche o giuridiche necessarie a valutare colpe e demeriti. Parlo del dibattito pubblico che si è innescato in questi giorni.

Si fa la cronaca degli applausi e dei fischi e il tema che impegna oggi il governo è individuare il colpevole e punirlo con severità. Ma in questo non c’è nulla di rivoluzionario o nuovo. Al di là della approssimazione delle dichiarazioni dei soggetti coinvolti, il dibattito che ne è scaturito è cresciuto sull’onda della divisione.

Il dolore divide, noi pre-millennials  lo abbiamo dovuto imparare (o meglio, non abbiamo più potuto ignorarlo) dal crollo delle torri gemelle e della spirale reazionaria che si è innescata in modo più o meno irreversibile.

E così oggi quel dibattito sul ponte fatto di indici puntati e minimizzazione delle responsabilità ci appare normale. Ma non dovrebbe essere così.

Non è eccezionale cercare colpevoli, non è eccezionale punirli.  Indagare e punire dovrebbe essere il discreto, enorme e silente dovere che ognuno di noi sente verso le vittime di questa tragedia civile.

Per l’Italia sarebbe eccezionale invece parlare di come sostituire quel ponte crollato, di come tornare a unire con l’ingegno, il saper fare, il voler fare.
Ma, come detto all’inizio, questa sembra essere una ambizione che interessa a pochi o pochissimi.

Il governo anche su questo tema (come su quelli affrontati fin dal suo insediamento) ha più voglia di smantellare che proporre. Una classe dirigente con il torcicollo, non riesce a distogliere gli occhi dal passato perché principalmente interessata – almeno così appare finora – a farsi vendicatrice di ciò che è stato piuttosto che farsi costruttrice di ciò che sarà.  Esempio concreto della passione per la divisione sono le parole del nostro primo ministro che istituzionalizzano la sfiducia del governo nazionale verso la giustizia dello stesso Stato che guida.  

Ma di questa deriva divisiva  (si potrebbe dire anche divisivista se non fosse un termine così brutto e difficile da pronunciare) fanno parte anche le forze di minoranza.

Sono giorni che si inseguono notizie, rumors e veline di un partito democratico impegnato o a rimandare un congresso che – per forza di cose – dovrebbe essere di rifondazione o di possibili scissioni. Fra le righe di queste notizie più o meno veritiere sembra però consolidarsi l’idea che alcuni ritengono più utile affondare la nave o abbandonarla ora che non è più al sicuro nella rada del potere, piuttosto che riparare le falle e disegnare una nuova rotta verso mari meno agitati.

E questa passione per la divisione, per la difesa del proprio singolo interesse praticata con il discredito dell’avversario del momento, sta generando unicamente la solitudine delle intelligenze. E queste intelligenze divise non sono nulla di astratto, ma sono la causa, ad esempio, della difficoltà d’individuare un responsabile chiaro del crollo del ponte. Abbiamo così tanto parcellizzato doveri, responsabilità, visioni politiche e strutture partitiche che oggi ci aggiriamo in un arabesco politico-burocratico-istituzionale che invece di funzionare serve solo a confondere.

E allora sarebbe meglio semplificare, unire e unirsi. Non fino ad annullare ogni differenza (nessuno sta  invocando un totalitarismo a tinte rosa) ma semplificare il numero e la qualità delle parti in campo in modo tale d’avere ruoli e responsabilità chiare e innescare così una dinamica positiva di rispetto reciproco.

Perché se le parti in campo – in politica e nell’amministrazione pubblica –  sono poche saranno molti a comprenderle e sostenerle e in democrazia – se ancora un po’ siamo affezionati alla repubblica italiana e ai principi di rappresentanza – i molti vanno rispettati sempre e comunque, anche se hanno pensieri e modi diversi dai nostri.  

Lo ha scritto  in modo chiaro oggi Enrico Mentana in un suo post sulla situazione del PD:

“La democrazia, lo ricorda proprio quella pagina storica di settant’anni fa, nasce dal superamento della dittatura, e non è quel gioco politico per cui chi vince decide, come molti si sono ridotti a credere oggi. La democrazia è il confronto aperto tra forze e idee diverse, è la dialettica tra maggioranza e minoranza. Per questo il buco creato da un Pd fuori gioco è un male per tutti. E per tutti sarebbe un bene che quel vuoto fosse colmato da un’opposizione diversa, non nostalgica o spinta da un’illusione di rivincita, da ascoltare e non da liquidare con un semplice “zitti, che tutti i guai nascono da quel che avete combinato voi”. Sarebbe utile anche per chi governa ora, se crediamo alla democrazia”

Ecco, per come la descrive Mentana – e per come molti l’hanno immaginata – la democrazia è un ponte. Che Genova allora sia da lezione per tutti. Una lezione non solo di ingegneria o di giurisprudenza, ma che spinga a riflettere su come ricostruire il vivere civile di una comunità che vuol progredire.