Quasi

Gli ultimi metri sono i più duri. Chi ha camminato su una qualche montagna lo sa.
Sei talmente vicino alla vetta che manco riesci a vederla per intero, t’appare invalicabile e altissima.
Lo stesso sentiero sul quale cammini da ore può sparire nelle vicinanze della cima. Ma sai che è un’impressione, un’illusione ottica ed è la fatica a farti apparire quegli ultimi metri milioni di chilometri.

Sei consapovele che la meta te la sei scelta. Hai memorizzato il percorso, predisposto l’attrezzatura e rotto il fiato dopo i primi chilometri. Per tutta la durata del cammino ti nutri dell’idea della vista del resto del mondo da lassù. Sarà piccolo, innocuo, lontano. Puoi fare a meno delle persone, dei negozi, del vociare. Puoi fare a meno di tutto ma non del desiderio di lei, della vetta, della solitudine in cima. Te ne stai andando in un posto altro rispetto all’umanità. Stai andando dove hai scelto. In alto, nel silenzio, con le tue gambe.

Ma in quegli ultimi metri ti si riempie la testa di un bivio, della sensazione di dover scegliere o – peggio – di star scegliendo una cosa centrale:
arrivare in cima, ottenere ciò che hai scelto superando la stanchezza,  facendo appello alla caparbietà, dimostrando a te stesso di saper finire quello che hai iniziato, oppure riprenderti la libertà. Riprenderti quell’unica libertà che ci è rimasta a disposizione: la libertà di tradirsi, quella di sprecare la fatica fatta, il giusto guadagnato. Di non lasciarsi incatenare da ciò che hai speso per essere costruttivo. Mollare senza pensarci un istante, liberarti da quello zaino da 20 chili il cui contenuto ti rende pronto ad ogni evenienza.

Mollare il desiderio della vetta e tornare a quell’umanità di cui non ti frega nulla, ma che non ti chiede nulla perché probabilmente non capisce nulla e se è impegnata a capire qualcosa non è impegnata nel capire le cose che fregano a te.